Tradizionalmente
il picozzo è il frate laico dell’Ordine dei cappuccini e dei
minori, ma anche il chierichetto, il terziario, il “torzone” o
“torsone”. Non avendo egli studiato (sebbene consacratosi a Dio)
a lui competono tutti i più umili e ordinari servizi giornalieri,
richiesti nell’ambito delle attività conventuali. Nel patrimonio
leggendario villalaghese il Picozzo è soprattutto il frate laico che
nascose certi pesci inviati in dono a S. Domenico abate, il quale
volle poi punire la sua ingordigia trasformandoli in serpenti.
Di
solito l’origine del termine si fa risalire alla madre di S.
Francesco d’Assisi, detta Pica o Picozza. Giovanni Pansa nel 1885
propose un’ipotesi (affidandosi al parere di Antonio De Nino),
secondo la quale i frati laici prendessero nome proprio in ossequio
della madre del fondatore dell’Ordine. Più o meno delle stesso
avviso fu più tardi anche Antonio D’Antonio (1976) che leggeva,
però, in picozzo quasi una qualifica di “figlio ideale” di
Madonna Pica, ma anche membro a pieno diritto della Famiglia
francescana.
Col
passare del tempo la figura del Picozzo è diventata perlopiù
sinonimo dei bagordi cui i villalaghesi si danno il 23 agosto presso
il santuario di S. Domenico abate, il giorno dopo la festa patronale.
Né è chiaro, comunque, perché si debba commemorare l’ingordo
frate! La
cosa sembrava finita lì, davanti al solito culto minore ormai
annebbiato dalla modernità. Finché quest’anno, per puro caso, ci
siamo imbattuti in una famiglia di Villalago (che non citiamo, per
espressa richiesta, ma ringraziamo per la cortese disponibilità) in
possesso di un simulacro rivelatosi quello del Picozzo. Il fatto
davvero singolare è che gli attuali detentori non solo ignoravano le
vicende di questo personaggio e del relativo culto, ma pensavano che
la statua fosse di S. Domenico abate. Alla loro sorpresa
nell’apprendere di possedere un “pezzo unico”, si è aggiunta
la nostra incredulità nel riscoprire un frammento della cultura
villalaghese ritenuto perso.
La
statua è in legno, alta circa 45 cm e larga al massimo 15 cm, un po’
tarlata e con poche crepe. Due solchi ai lati della base suggeriscono
una loro funzione per agevolare l’inserimento del manufatto in
qualche supporto per uso processionale o di semplice sostegno. E’
priva di entrambi gli avambracci che tuttavia devono esserci stati,
come dimostrano i due buchi entro i quali ancora resistono residui
dei perni in legno che permettevano di innestarli al resto del corpo.
Rappresenta
un frate francescano, almeno dall’abito e dal colore marrone della
vernice che oggi lo ricopre. Ha figura slanciata, leggermente ricurva
all’indietro, stretta in vita da un cordone chiaro da cui sul
fianco destro ripende un tratto terminato da una croce. Il volto è
regolare, contornato da una barba ben disegnata; manca l’aureola e
il capo è tonsurato, cosa strana per un frate laico. Sulle spalle vi
è un’ampia mantella allacciata sul davanti, con piccolo cappuccio
sul retro.
Sull’identità
e le vicissitudini di questa statua abbiamo raccolto varie
testimonianze orali, ma è una in particolare che ci ha permesso di
attribuirla al Picozzo. Rilasciataci da un’anziana donna di
Villalago di 94 anni che l’ha riconosciuta subito, emozionandosi
come quando ci si rincontra con qualcuno dopo molti anni. Alla sua
vista ha chiesto una grazia per tutti, raccomandandosi poi ai
proprietari di riservargli un posto d’onore e omaggiandola di una
coroncina del Rosario. La denominazione che ne ha dato è “Pecuozze
de Sante Demineche”, l’unica da lei conosciuta. Quest’ultimo
aspetto è interessante perché nel corso della nostra indagine sono
riemerse almeno altre due forme: “Pecuozze de Sante Dunate”
(ancora tutta studiare) e “de Sante Liunarde” (di cui si dirà
più avanti).
Grazie
a lei abbiamo scoperto che negli anni ’20 del Novecento la statua
era più o meno come oggi, esposta nella chiesa dell’eremo di S.
Domenico in un punto lungo la scalinata conducente alla grotta del
Santo, dove rimase fino a quando non fecero i lavori per la
costruzione della diga (1920-1928). Poi essa sparì, supponiamo
asportata per salvaguardarla, scelta che sul lungo periodo si è
rivelata infelice perché, come vedremo, ha generato una certa
confusione, non del tutto diradata.
Nel
1976 D’Antonio fornì la descrizione di un oggetto coerente nei
tratti essenziali con quello da noi riscoperto, almeno nel suo
aspetto attuale: “(...) una bellissima statua in legno di buona
fattura, monca però di avambracci e mani”. Peccato, però, che
egli la attribuisse alla statua di un certo “Pecuozze de Sante
Liunarde”, a quell’epoca di proprietà di Orlando Iafolla di
Villalago. Questa statua, così minimamente connotata, somiglia a
quella da noi ritrovata, ma forse D’Antonio citava vecchi dati
perché gli attuali detentori affermano di possederla da almeno una
cinquantina d’anni, quindi nel 1976 essa non poteva trovarsi presso
Orlando.
Apprendiamo
inoltre da un suo parente diretto che Orlando avrebbe già avuto fino
alla fine degli anni ’50 un’altra statua lignea, pure
raffigurante un frate, munita di mani, alta circa un metro e che egli
chiamava in effetti “S. Leonardo”, poi venduta a un rigattiere.
L’impressione è che si stia parlando di due oggetti diversi di cui
il primo forse corrispondente a quello da noi ritrovato e che per una
qualche ragione D’Antonio assimilò al secondo, oggi non più
disponibile perché alienato. La questione, come si vede, è molto
ingarbugliata.
Comunque
sia, proprio partendo dalla denominazione “Pecuozze de Sante
Liunarde” D’Antonio ricostruì tutta una possibile (e laboriosa!)
ipotesi. Lo scopo era di spiegare l’origine del culto locale per il
Picozzo ricollegandolo a quello per il francescano S. Leonardo da
Porto Maurizio (1676-1751), forse introdotto in paese nel ‘700 da
villalaghesi suoi confratelli.
A
questo punto abbiamo anche degli indizi di tipo cultuale. Secondo
D’Antonio, infatti, era proprio al “Pecuozze de Sante Liunarde”
di Orlando Iafolla che erano tributate preghiere, essendo oggetto di
devozione in associazione al culto di S. Domenico. Vi si ricorreva in
casi di estrema necessità per ottenere grazie di vario genere, anche
se sembra più legato al mondo agrario, invocato specie in tempo di
siccità. Veniva portato in processione, ma senza abusarne,
altrimenti la pena erano tremendi castighi.
Resta
da discutere un ultimo punto. Nel 2005 la chiesa di S. Domenico abate
ci aveva regalato una bella e antica statua in terracotta (pare
almeno cinquecentesca!), rinvenuta in una nicchia murata a destra
dell’altare. A quell’epoca ci si pose da subito il problema se
fosse un S. Domenico abate (come probabilmente è) o il Picozzo.
Anche D’Antonio aveva già riferito nel 1976 della presenza di una
statua nel santuario, esattamente nella stessa posizione di quella
del 2005, simulacro che a detta dei vecchi era attribuito al Picozzo
ma che lui riteneva potesse trattarsi di S. Leonardo (!).Alla luce
dei recenti sviluppi ci sentiamo di escludere che la statua del 2005
sia il Picozzo, né è quella di S. Leonardo da Porto Maurizio (per
evidenti ragioni cronologiche!).
Bibliografia
essenziale
D’Antonio A.,
Villalago, Pescara, 1976, pp. 195, 208 e 223-224.
Grossi R., Un’antica
statua modellata in creta. E’ stata rinvenuta in una nicchia murata
all’eremo di San Domenico, in «Gazzettino della Valle del
Sagittario», n. 2 (2005), p. 21.
Pansa G., Saggio di
uno studio sul dialetto abruzzese, Lanciano, 1885, p. 35.
Articolo
dal titolo "Il Picozzo ritrovato: un culto villalaghese minore", pubblicato sul Gazzettino
della Valle del Sagittario, anno 2008 - n.3 (autunno)
Autori: Angelo Caranfa, Maria
Rosaria Gatta e Enrico Domenico Grossi
Il presidente
dell'Associazione
Maria Rosaria
Gatta